L’avvocato Vito Branca , presidente di Riscossione Sicilia e recentementeinsignito dal Capo dello Stato della massima onorificenza della Repubblica, dà seguito all’intervento che abbiamo riportato del giudice Felice Limaoffrendoci una significativa ed efficace ricostruzione storica che conferma come noi italiani non siamo stati nel tempo “brava gente”, ma potremmo esserlo e gli esempi non ci mancano. Anche per i nostri governi. (PDR)
Caro Felice,
colgo lo spunto della tua “invettiva”, raccolta da Pierluigi Di Rosa con grande sensibilità, per ricordare che nel 2005 lo storico Angelo Del Boca pubblicò un saggio dal titolo provocatorio “Italiani brava gente?” che si poneva in netta antitesi con la retorica buonista che ci descrive come un popolo di “brave persone” e che trovò una efficace rappresentazione nel film del ’64 di Giuseppe De Santis “Italiani brava gente”, da recente restaurato e riproposto.
Per inciso, in quel libro Del Boca faceva a pezzi la vulgata del soldato italiano del genere “armata sagapò”, tutto cuore e mandolino, per restituire al giudizio della storia le stragi compiute dalle nostre forze armate, ed ordinate dai comandi superiori (Badoglio, Graziani, Cavallero ecc.), sia da sole, come in Abissinia, che in compagnia dei tedeschi, come nei balcani.
Solo in Etiopia, fra le tante stragi, vennero sterminati duemila religiosi nell’eccidio compiuto presso la città conventuale di Debre Libanos e si fece un largo uso di armi chimiche anche contro la popolazione civile per piegare la resistenza del Negus ed abbreviare i tempi di una “conquista” che si era rivelata difficilissima e sanguinosa.
Il Comando alleato alla fine della guerra indicò in 1070 i criminali di guerra italiani alla cui testa c’era il discusso ed ambiguo Generale Mario Roatta, quello del ridicolo proclama “Voi siciliani e noi italiani” della primavera del ’43, capo del SIM e dello Stato Maggiore dell’Esercito al quale vennero contestati numerosi crimini di guerra nella ex Jugoslavia che gli costarono una condanna all’ergastolo mai scontata grazie ad una provvidenziale fuga nella Spagna franchista.
Allora, Italiani brava gente? Si direbbe di no quindi, ma non si può dimenticare che italiani erano, ad esempio, anche anche Gino Bartali, il grande campione, che a rischio della propria vita salvò centinaia di ebrei dalla deportazione e dalla morte trasportando falsi documenti nascosti nei tubi della sua bicicletta, il carabiniere Salvo D’Acquisto che si immolò, incolpevole, per salvare la vita di 22 civili da una rappresaglia nazista e migliaia di altri oscuri eroi che non esitarono a mettere in gioco la propria vita per salvarne altre.
Per quest’ultima considerazione ti dico che non posso pienamente essere d’accordo con la tua forte analisi, anche se provocatoria ed inserita in un più ampio contesto, pur essendo ben distante dall’idea di appartenere ad una nazione di “brave persone”; penso piuttosto di fare parte di una comunità che – da sempre priva di una identità nazionale unitaria (tranne che nel football) – negli ultimi anni ha ingigantito le proprie contraddizioni e le proprie caratteristiche negative, storicamente ben presenti nel carattere del nostro popolo.
Non può dimenticarsi che italiani erano coloro che la sera del 10 giugno del 1940 riempirono entusiasticamente le piazze delle nostre città per osannare il Duce ed inneggiare alla dichiarazione di guerra dell’Italia fascista, che italiani erano anche coloro che all’indomani del 25 luglio del 1943 scoprirono di esser mai stati fascisti e che addirittura il 29 aprile del 1945 accorsero – direi vigliaccamente – per vilipendere il cadavere dello stesso Duce che appena cinque anni prima, e nei precedenti venti anni, avevano invece osannato.
Ma italiani erano i 12 professori universitari, su 1225, che nel 1931 rifiutarono il giuramento al fascismo come, purtroppo, italiano era anche il giurista Gaetano Azzariti che da Presidente del cosiddetto Tribunale della Razza, la più odiosa istituzione del ventennio, riuscì a riciclarsi fino a diventare Presidente della Corte Costituzionale della nostra repubblica: altro che Giorgio Ambrosoli da te opportunamente citato, un vero grande “eroe borghese” italiano.
E’ vero, caro Felice, che una quota non trascurabile di connazionali è composta da “mentecatti, malavitosi e cialtroni”, ai quali aggiungerei i trasformisti ed i furbetti/lavativi, ma è altrettanto vero che la stragrande maggioranza degli italiani vive e lavora onestamente e merita di essere governata bene, avendone il diritto.
A questa maggioranza non può essere negato il diritto di sapere da che parte sta chi ci governa e se il discrimine del rispetto del dovere è il comune denominatore della classe dirigente della propria nazione.
Eppure, per noi che viviamo a Catania, in Via Martino Cilestri c’è una lapide apposta sulla facciata di uno stabile che il senso del dovere lo ricorda, molto efficacemente, rammentando il sacrificio di Antonio Santangelo Fulci, medaglia d’oro al valore militare, che a vent’anni, oggi si direbbe un ragazzino, non esitò ad immolare la sua giovane vita sul finire di una guerra ormai persa per noi italiani, combattendo con coraggio ed abnegazione contro le truppe inglesi, mosso dal senso del dovere e della dignità personale spinto fino alle estreme conseguenze.
Questo eroe ragazzo ci ricorda che in Italia, poco più di settant’anni fa e quindi non di secoli or sono, c’è stata una generazione, alla quale appartenne anche mio Padre, che fece integralmente il proprio dovere pur essendo stata governata disastrosamente e tragicamente, dimostrando che si può essere governati male ma che il proprio dovere di cittadino prescinde da chi ci governa e costituisce, per chi ci governa, un formidabile stimolo a farlo bene.
Con stima ed amicizia
Vito Branca
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Antonio Santangelo Fulci (Catania, 25 settembre 1922 – Solarino, 13 luglio 1943) è stato un militare italiano caduto durante l’invasione della Sicilia, durante la seconda guerra mondiale, e decorato con medaglia d’oro al valor militare.
Biografia
Nacque a Catania il 25 settembre 1922,[2] figlio del generale Giuseppe Santangelo, fratello di Roberto. Tra il 1937 e il 1940 frequentò la Scuola Militare di Roma, e dal 1940 al 1942 il 122º Corso[1] presso la Regia Accademia di Artiglieria e Genio.[2] Uscito con il grado di sottotenente[1] d’artiglieria viene assegnato al 40º Raggruppamento artiglieria[1] di Corpo d’armata del 133º Reggimento artiglieria corazzata “Littorio”.[1] Durante la Campagna di Sicilia assunse il comando di una batteria di cannoni autotrasportata da 105/28 del 10º Gruppo,[1] posta a difesa dello sbarco delle truppe alleate nella zona di Cassibile, in provincia di Siracusa.
Nel corso della battaglia del 10-13 luglio 1943 avvenuta nei pressi di Solarino perdeva la vita al comando della sua unità.[1] Per il suo gesto veniva inizialmente insignito della Medaglia d’argento al valor militare alla memoria conferitagli con decreto 10 giugno 1947[3] successivamente commutata in Medaglia d’oro.[4]
A lui è stata intitolata una via di Catania e la caserma di piazza Carlo Alberto della sua città natale, mentre una lapide è stata murata nella casa in cui abitò in via Martino Cilestri.[4]
Onorificenze
Medaglia d’oro al valor militare
«Comandante di una sezione di artiglieria, facente parte di una colonna destinata ad una importante operazione, in tre giorni di aspri combattimenti, dava prove di spiccate virtù militari. Chiesto ed ottenuto di essere impiegato in funzione controcarro, esplicava tale compito con perizia, infliggendo gravi perdite all’attaccante. Nella difesa dell’ultimo caposaldo, diretto da ogni lato da forze corazzate continuava a resistere sino all’estremo. Ferito gravemente il servente dell’ultimo pezzo, si sostituiva ad esso e continuava il fuoco, finché, investito da una raffica di mitraglia, cadeva incitando i pochi superstiti alla lotta.»
— Sicilia, Km 27 strada Solarino-Palazzolo Acreide, 10-13 luglio 1943.[5]
— 7 aprile 1949[6]
Medaglia d’argento al valor militare
— 10 giugno 1947
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